Poche note sulla teoria della ricezione
SCHEDA [1]
Negli anni novanta (innestandosi sulla scia della teoria della ricezione, che si afferma già dal 1967 con H.R. Jauss) è stata elaborata l’idea della “comunità interpretante”, concetto che sembra particolarmente adatto a rappresentare la pratica del nostro laboratorio, composto da soggetti eterogenei che – accomunati da un desiderio condiviso – compiono insieme esperienze di lettura, di comprensione, di interpretazione.
Il nostro laboratorio rimanda, ci sembra, un’immagine felice di una comunità interpretante di lettori/lettrici nel loro approccio a una serie selezionata di testi.
Informazioni e stralci da citazioni di autori che sono interessati al rapporto lettura/scrittura, lettori-lettrici/testo:
Già H.Weinrich (1927), nell’esaminare il rapporto fra opera letteraria e pubblico, afferma che non bisogna cercare “gli innumerevoli lettori che un libro ha di fatto trovato (..) nella loro accidentale individualità”, quanto piuttosto esaminare “le tipiche esperienze di lettura di un determinato gruppo di lettori o di un lettore rappresentativo di un determinato gruppo”.
Con il suo Lete. Arte e critica dell’oblio, Il Mulino, Bologna, 1999, Weinrich svilupperà successivamente la sua posizione sulla teoria letteraria guardando al canone non come repertorio di testi, memoria e accumulo monumentale di opere, ma come selezione e luogo di una possibile intesa “comune”, con riferimento sia alle conoscenze ordinarie sia agli interessi e ai parametri interpretativi condivisi da una comunità di lettori.
Indica così un’esperienza di lettura collettiva che verrà poi sviluppata con Jauss (1921-1997), che introdurrà il concetto di orizzonte di attesa del pubblico di un’epoca.
Da una parte dunque il testo con i suoi segnali e le sue istruzioni implicite, dall’altra il pubblico e le sue differenti ricezioni:
“l’opera appena pubblicata non si presenta come un’assoluta novità in uno spazio vuoto, bensì predispone il suo pubblico ad una forma ben precisa di ricezione mediante annunci, segnali palesi e occulti, caratteristiche familiari o indicazioni implicite. Essa sveglia ricordi di cose già lette, già dall’inizio alimenta attese per ciò che segue e per la conclusione, suggerisce al lettore un preciso atteggiamento emozionale, ed in questo modo fornisce preliminarmente un orizzonte generale per la sua comprensione, il quale è l’unico punto di riferimento possibile per il problema del soggettivismo dell’interpretazione e del gusto di diversi lettori o classi di lettori.”
Quale rapporto dunque può instaurarsi fra l’orizzonte di attesa e l’opera? Può essere un rapporto di “rispondenza” oppure di “scarto dalla norma”. “In una prospettiva storica, si deve ipotizzare una “catena di ricezioni” che si costruisce a partire dal primo lettore e che si arricchisce con le interpretazioni dei lettori successivi”.
Iser (L’atto di lettura, Il Mulino, Bologna, 1987) introduce il concetto di lettore implicito, che verrà sviluppato da Umberto Eco. Rifacendosi alla Fenomenologia dell’opera letteraria di Ingarden, parla infatti di “vedute schematiche” offerte dal testo e che devono essere riempite dal lettore.
Il testo cioè è intessuto di spazi bianchi che chiedono di essere riempiti, e sarà proprio la cooperazione del lettore a riempirli, mettendo in gioco le sue esperienze, le sue letture e conoscenze pregresse (personali e di contesto).
C’è dunque un autore implicito che stabilisce le regole della narrazione e offre al lettore un orientamento che ne guida la risposta. La lettura cioè nasce dalla interazione tra il testo strutturato e un atto (la risposta del lettore) per cui l’opera si completa “in una dimensione virtuale che si pone tra lo scritto dell’autore e l’esperienza del lettore”.
Tanti lettori e lettrici, tante letture possibili, una dinamica sottintesa dalla natura stessa del testo.
Secondo la sua (di Iser) visione dunque “L’immagine globale dell’opera nasce dall’incontro fra l’orizzonte d’attesa del lettore e le trasformazioni che vi apporta questo cammino nel testo” (Olivieri cit. pag. 106).
Umberto Eco: nel suo saggio Lector in fabula (Bompiani, Milano, 1979) introduce il concetto di cooperazione interpretativa, che svilupperà nelle sue elaborazioni teoriche successive, superando lo strutturalismo più schematico per accogliere un approccio più pragmatico che valorizza l’aspetto comunicativo esplicito e implicito dei testi.
L’attività cooperativa porta il destinatario a trarre dal testo quel che il testo non dice ma promette, lascia implicito con i suoi spazi vuoti; di fatto invita chi legge a riempire, a collegare quello che vi è in quel testo con altri testi, di tempi e contesti diversi (intertestualità): “un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare”; e ancora “ […] un testo postula il proprio destinatario come condizione indispensabile non solo della propria capacità comunicativa concreta ma anche della propria potenzialità significativa. In altri termini, un testo viene emesso per qualcuno che lo attualizzi […]” (Eco, cit.,1979).
Interessante la posizione di Mario Ambel, tanto più interessante se si considera l’impegno dello studioso nella ricerca didattica e le conseguenti ricadute del suo discorso nell’educazione di nuove generazioni di lettori/lettrici:
“L’atto di lettura e soprattutto la comprensione o l’interpretazione sono per il lettore/lettrice fonte di piacere intellettivo, al contempo razionale ed emotivo, che nasce da processi di identificazione, di partecipazione, ma anche dalla gratificazione di aver colto nel segno o al contrario di essere stati stupiti e sorpresi, di aver colmato i buchi vuoti del testo o di aver continuato ad accumulare interrogativi e zone oscure in attesa dello scioglimento finale degli eventi o dei significati.
La lettura, la comprensione, l’interpretazione (e i relativi piaceri) possono nascere solo da un incontro di mondi che accettano di arricchirsi vicendevolmente: sicuramente si arricchisce il lettore, ma ne trova giovamento anche il testo, su cui si depositano nuove esperienze di lettura, di interpretazione, di dialogo (con il testo e fra lettori), di commento.”
L’idea del dialogo si inscrive nel filone aperto da Bachtin, che afferma la teoria del principio dialogico, con riferimento specifico al romanzo polifonico, in contrapposizione al romanzo monologico: chi legge non dialoga solo col testo (e indirettamente con l’autore e il suo tempo) ma anche con i personaggi, grazie alla struttura compositiva del romanzo polifonico, per cui l’autore “dispone e organizza più voci all’interno del romanzo”, che hanno una loro autonomia, un loro punto di vista sulla realtà, una loro ideologia, un loro linguaggio; hanno una loro coscienza, che si manifesta attraverso la parola. (cfr. Paolo Desogus, Università di Siena).
Al contrario, nel romanzo monologico il personaggio non ha voce né ideologia autonome, dipende dall’autore e ne parla la lingua.
Bachtin afferma che, se l’opera artistica avviene in un contesto storico da cui non può prescindere; se l’arte riflette le realtà socio-economiche e culturali di una comunità linguistica, essa non si può però risolvere in esse; l’artista, lo scrittore cerca forme di rappresentazione delle contraddizioni della realtà e affida ai personaggi appunto la libertà di esprimere una prospettiva sul mondo, una loro “umanità e vitalità”.
E sull’idea di dialogo ritorna anche Romano Luperini, che parla di “interpretazione interdialogica”, come esito di un percorso storico-critico che ha visto prevalere, in fasi diverse del ‘900, prima teorie fondate sulla centralità del’autore, poi – con l’affermarsi dello strutturalismo – altre fondate sulla “centralità del testo, cui è subentrata successivamente una diversa teoria che ha dominato lo scorcio finale del secolo: quella dell’ermeneutica e della centralità del lettore”. Chi legge si pone interrogativi e dialoga col testo, pone al testo interrogativi (“chi ha scritto quest’opera?, quando?, quale è il suo significato letterale?, come è scritta?”) ai quali si può rispondere “appellandosi a criteri di certezza e di precisione”; ma pone al testo anche interrogativi sui suoi messaggi profondi (sul suo significato, su quali messaggi comunica, sui suoi temi e motivi) e questo implica un’attenzione alla sua genesi e al suo linguaggio ma mette anche in gioco l’interpretazione. E nell’interpretazione il dialogo si allarga, include i soggetti coinvolti nella lettura, che – protagonisti nel dialogo col testo – all’interno della classe dialogano fra loro e formano una comunità interpretante, in un processo di cui viene sottolineata la forte valenza anche educativa “Così, trasformandosi in comunità ermeneutica, la classe prefigura una civiltà del dialogo e si allena alla democrazia” (R. Luperini, L’educazione letteraria, in Lavinio C., Educazione linguistica e educazione letteraria. Intersezioni e interazioni. Franco Angeli, Milano 2005, pagg. 35-42.
L’intervento fa parte degli Atti del XII Convegno Nazionale GISCEL, Cagliari 2002,).
Vogliamo chiudere con una citazione di
Dacia Maraini, Amata scrittura (a cura di M.P. Simonetti e V.Rosi), prima edizione BUR 2002, pagg.21-21, di cui abbiamo condiviso la lettura nel corso di un laboratorio:
“Ho sempre pensato che chi legge un libro, in qualche modo lo riscrive. L’autore porge delle indicazioni ma poi è il lettore che deve saper ricostruire con la sua immaginazione e il suo sapere il mondo in cui si trova a vivere attraverso i corpi estranei dei personaggi.
Per questo considero la lettura una vera gioia amorosa, non per i contenuti che mi offrono i libri ma perché leggere è un grande esercizio di soggettività. Leggendo ci si fa soggetto di una storia, di un discorso, di una riflessione, di una fantasia, di un sogno. E l’intensità di questo farsi non ha limiti, non ha cesure.
E’ anche per questo che non si può scrivere se non si legge. Senza il lettore la scrittura non esiste e senza la scrittura il lettore esiste.
Il rapporto fra chi legge e chi scrive, pur essendo un rapporto fra due corpi, non è l’incontro naturale di due persone che si parlano, si capiscono, si riconoscono: la comunicazione fra i due passa attraverso una convenzione molto complessa che è la scrittura. Il lettore deve decifrare un linguaggio, applicare un codice, compiere un’operazione che presuppone un grande lavoro di concentrazione.
Però quando ci si riesce, si prova un grande piacere: si scopre di poter vivere tante vite diverse, di potere viaggiare nel tempo e nello spazio. Noi siamo chiusi dentro una vita limitata, prevedibile, spesso asfittica, e i romanzi danno la possibilità di attraversare altre esistenze, altri panorami, calzando altre scarpe, annusando altri odori, in un tempo che non ci appartiene”.
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