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Laboratorio di scrittura a partire da sé

Omaggio a Giulio Angioni (1) – 9.2.2017

Collana Scritti meditati

Elaborazioni individuali

A partire dalle letture fatte da “Sulla faccia della terra”di Giulio Angioni e accogliendo anche suggestioni offerte dagli scritti di getto, costruisci liberamente un testo, nella forma a te più congeniale, con uno scopo e una destinazione definiti (chiose a un brano che ti intriga, intervista a uno dei personaggi del romanzo, dialogo con un personaggio reale o immaginario, monologo del “morto che parla”, cinque domande che avrei voluto fare all’autore di …, altro) .

Puoi simulare una specifica situazione.


R. D.

Monologo del morto che parla

Non tutti i morti vengono risvegliati col dono di qualche domanda, dopo secoli e secoli. Per farlo bisogna sapere che i morti parlano e vogliono parlare. Ma chi vive giorno per giorno, ignorante come i più che ho conosciuto, che cosa vuoi che chieda?

Anche dopo secoli però chi pensa e ha sentimento interroga non solo gli uomini dei suoi tempi ma anche quelli del passato. Perché possono avere molte cose in comune, cose della vita, di amore e di odio; e cose della morte. Ma per interrogare e interrogarsi ci vuole cuore e immaginazione.

Tu che hai studiato queste cose, come mi dici, e sei curioso , capisci quello che dico e quello che forse non so dire. Io sono ignorante di parole, ma non di pensiero e sentimento E chi è risvegliato e interrogato gli sembra di essere un vecchio antico, ascoltato e calcolato.

Da vivo, quando ero giovane come te, non sempre mi piacevano i vecchi, sempre a sentenziare. Ma mi piaceva ascoltare quelli che avevano qualcosa da dire, come tziu Fadeli e tziu Priamu. Raccontavano del passato disgraziato nostro, con tutti i vincitori addosso come giustizieri, più che come vincitori, che non perdonano a chi sta sotto, perché chi sta sotto li odia. Ci devastavano le case e anche le terre, ma a noi no, non sono riusciti a devastarci; come le canne ci pieghiamo, ma quando passa la furia del vento assassino, ci tiriamo su, dicevano.

Qualche volta i nostri antichi parlavano di cose che noi giovani non capivamo bene. “ Hanno sfrattato anche i nostri dei “ dicevano “ tanto tempo fa, e quasi non ce ne ricordiamo. L’uomo ricorda solo ciò che gli fa comodo”; ma noi giovani non facevamo i barrosi. Forse non solo io, ma anche qualche altro, avevamo il pensiero confuso che a farti capire si impegna la vita, magari più tardi.

Le ho capite nel rischio della vita, certe cose. Tempeste della vita, da ricordarsene per sempre, io credo che, in ogni tempo che Dio ci dà, si abbattano sull’uomo. Per me la tempesta più grande è stata quella notte del 1258 che vedevo il mio corpo sempre sottoterra in quella posizione da bestia infima, sempre annichilito, seppellito così fino al giorno del giudizio. E peggio, se possibile, quando ho visto la distruzione di ogni cosa e persona; tutto finito. Se può capitare tutto questo, non c’è splendore che duri e il vincitore di oggi sarà distrutto da quello di domani. E l’uno e l’altro dimenticati.

Si muore e si rinasce; la disperazione, l’istinto ti fanno trovare il modo, senza piangere per il male che ancora ti lacera. Col tempo ho imparato che ci sono tanti motivi e modi di rinascere e continuare a vivere. Anche da morto, soprattutto da morto. Per giustizia, forse solo per rabbia.

Può sembrare strano, ma quando siamo sotto piegati, troviamo la forza, sappiamo anche ridere e farci beffe, di noi e degli altri. Perché bisogna ridere; ride e scherza non solo lo sciocco, ma chini tenid sentidu. La differenza è che sceglie il momento e lo fa con chi gli sembra che capisce. Ma non tutti capiscono. E’ un dono anche quello, una risorsa. Riso sardonico, dici? Può essere, qualche volta. Ma quello è riso nero, di dolore. Però mi sembra che la cosa sia più complicata e anche più bella; no, non è solo smorfia di dolore, riso di morte. E’ riso che permette di risollevarsi, riso anche di beffa, ma quando possiamo anche di allegria. Per continuare a vivere bisogna farsi beffe, di sé e degli altri. Ci pieghiamo, piangiamo e ridiamo in una insieme, per poterci risollevare.

Venivano, i nostri antichi, da un passato più disgraziato ancora di quello che ho vissuto io e, mi sembra, più brutto di questo tempo tuo; che anche lui però sempre gli è figlio e forse è più facile e comodo, per grazia di Dio, pieno di meraviglie e diavolerie; ma qualche volta, per quanto mi fai capire, non meno feroce.

Anche a me piace ascoltare e interrogare chi mi interroga, per cercare di capire come è diventato questo mondo dopo tanti secoli che Dio gli ha dato. Ho capito che ci sono meno cenciosi e affamati ; non so se meno disperati. La disperazione degli uomini può avere ragioni diverse; anche l’immaginazione e i sogni nostri penso che erano diversi; la fame e il bisogno ti comandano i sogni. E la guerra. Quella, anche se fatta in modi diversi e con tutte le vostre novità, io penso che è sempre umiliazione e terrore.

Diglielo a quelli che la guerra non la conoscono davvero perché è lontana, diglielo che cos’è: sangue e odore di morte e orina e merda e vomito in una iradidio di gemiti e urla. Umiliazione e terrore brutto, che ci vuole coraggio a vincerlo. Poi ognuno la racconta come vuole, con i nomi che gli conviene dare.

L’unica immagine bella che mi è rimasta della guerra è quella di Sidora Spiridada. Così la chiamavano, dopo la morte del marito in guerra, ma già prima era “ sa macca”, perché era strana e forse anche perché era forestiera e di costumi diversi. Arriva leggera, col suo passo incerto, a onde come quelle del mare, si china davanti a un morto che sembrava più morto di tutti, la faccia stanca, solo gli occhi pampas de fogu, se lo porta al seno e lo culla e lo canta accarezzandolo piano piano, come se avesse fra le braccia il marito morto o il figlio che non ha mai avuto.

Solo un attimo l’ho vista e non vista; forse me la sono solo immaginata. Ma con le immagini del terrore che,ferita aperta, ho ancora dentro a battagliarmi, c’è sempre viva quella di lei, Sidora Addolorata. Ma questa non è la guerra, questa è compassione e amore.


M. E. G.

Riflessioni

Conduco una vita modesta, sono il garzone di un vinaio, però apprezzo quanto mi offre la vita.
Amo la mia città, bellissima, sul mare, bianca di sole.
Così amata anche da tanti popoli che cercano di conquistarla.
Nel conquistarla quante distruzioni, saccheggi delle nostre opere, patrimonio del nostro passato.
Io, in questo momento apprezzo le belle costruzioni, le mura, le torri , le chiese.
Ciò che conosco della città mi è stato raccontato, io non sono andato a scuola.
Mi affascina sapere che la presenza di vari popoli non ha causato sempre solo distruzioni ma ha arricchito di arte e cultura la mia città.
Adesso vogliono eliminare tutto ciò?
Vogliono eliminare l’aspetto materiale, le persone, i sentimenti ,non hanno pietà neanche per i morti usati come munizioni.
Ma io resisto, io voglio vivere, essere una parte di storia del mio tempo.
Cosa succede se muoiono tutti? La storia si ferma!
Metterò in atto tutte le strategie di cui sono capace, innanzi tutto non mi fiderò di nessuno, non voglio diventare schiavo di un popolo che non apprezzo.
So che se morissi io che non sono nessuno sarei presto dimenticato.
Farò il morto per vivere.
Sono giorni qui fermo fingendomi morto e apprezzo la vita!


R. S.

Testo libero
La ferocia della guerra, nelle parole semplici di Mannai Murenu, è uguale in qualunque tempo. E viene raccontata intrecciando i ricordi, le sensazioni che tornano all’improvviso con la loro fisicità, mescolando il dentro e il fuori.
“Se ti trovi dentro la guerra, dice Mannai Murenu, odiala con chiarezza. E con coraggio”
Dentro è la fame, la paura che i pisani si accorgano che ti fingi morto, il cuore che batte forte nelle orecchie, il bisogno di dimenticare per riuscire a vivere.
Fuori è la distruzione quando cala la notte, la polvere, il fumo, i boati. Il sale che copre, che consuma, che distrugge e purifica.


P. D.

Dialogo fra Vera e Akì

V. Che dici dei due nuovi arrivati?
A. all’inizio, la prima volta che li ho visti, mi è venuto un colpo, mi è quasi mancato il respiro … sentivo come una mano che mi afferrava e mi chiudeva lo stomaco, poi un tremore in tutto il corpo
V. ti hanno fatto paura? Proprio Mannai Murenu, così giovane, con gli angoli della bocca come un bambino impaurito che si fa coraggio, anche lui, perché un uomo la paura non la può manco nominare, meglio morto
A. no, è il panico che mi ha preso quando all’improvviso li ho visti da lontano e allora mi è tornato il ricordo … l’incubo di una volta, che mi ero svegliata in un posto sconosciuto … isolato e strano e mi sono vista davanti due uomini e quelli senza neppure guardarmi mi hanno preso …
V. un incubo … un sogno?
A. un incubo .. ma vero .. uno mi ha caricato sulle spalle, come un agnello .. e io mi pestavo, con mani e piedi legati … un pianto di sfinimento … e poi il buio e … quando mi sono svegliata … non era un sogno, ero sempre legata e …
V. ora non pensarci … è passato e qui non sei sola, sei con noi …
A. solo con te riesco a parlarne, e mi fa anche bene, come se con le parole mi uscisse in fumo il veleno che quel ricordo mi teneva nello stomaco e nelle viscere.. quel posto .. quegli uomini e .. il mercato delle schia..
V. ma è finito .. da quel mondo sei riuscita a liberarti, riuscirai anche a sopportare quel ricordo .. grazie a dio esistono anche le persone come quelle che ti hanno aiutato … e quelle che tu puoi aiutare
A. .. e ci sei tu, che mi dai forza … quando parli, ma anche quando non dici niente e ti vedo .. gentile e sicura meglio di un uomo … come non ho mai visto mia madre … ora lo capisco quello che deve aver patito per lasciar patire così anche me
V. Ora dimmi, e questo nuovo arrivato, che ti guardava come pauroso di sciuparti con lo sguardo? chi se la immaginava tutta questa delicatezza nel garzone di un vinaio di Seui … ma .. e tu?
A. io non sono riuscita neanche a guardarlo, solo da lontano … e dopo .. solo per ringraziare, quando mi ha dato una bella fetta di pane di seddori … così grossa che non ci potevo credere …
V. questo sì che è amore! e dopo, non l’hai più incontrato, a Mannai Murenu?
A. da solo no, meno male … perché, come faccio a guardarlo negli occhi, a raccontargli di me, della mia storia? Quando mai potrà capire?
V. lascia tempo al tempo e non lasciarti ingannare dalle apparenze, certi giovani … com’è come non è .. hanno più saggezza di tanti anziani … e poi non ci sono solo le parole … ma questo, se ti puoi fidare o no, solo tu lo puoi capire ..
A. e come faccio, a capirlo?
V. l’importante è che tenga orecchie e occhi ben aperti, non è vero che l’amore è cieco, e se anche fosse, molti sono i segni per chi vuol capire … e farsi capire
A. e quali?
V. piano piano imparerai a decifrarli. Ma prima di tutto ti devi ricordare, in ogni momento del tuo agire e della vita, che la tua dignità nessuno può togliertela. E nemmeno dartela. È come la libertà … solo tu puoi.


B. M.

Ciò che colpisce immediatamente alla lettura dei tre estratti dal libro di Angioi è l’oscurità che pervade i luoghi e gli eventi raccontati da Mannai Murenu.
L’oscurità non riguarda soltanto la materia che viene narrata, ma anche il modo in cui viene narrata. Mannai vorrebbe raccontare, forse, ma fin dall’inizio ammette la difficoltà a farlo: “E’ una parola dire ciò che ricordo…”, infatti non è la memoria che gli manca, ma proprio la parola.
Più avanti, quando descrive il suo “interramento” sotto le rovine della casa del vinaio afferma che era solo consapevole di “essere morto” e dice al suo interlocutore “non chiedermi di più su questo”. Mannai riesce però a raccontare, con dolore e una sorta di rassegnazione, gli avvenimenti che hanno portato alla sua “morte”.
Leggendolo, ci chiediamo che significato abbia la sua affermazione “io so com’è morire”, ci chiediamo quale realtà ci sia nelle sue parole, e se da un lato sappiamo che ha finto di essere morto per potersi salvare e quindi parla della sua morte in senso metaforico, mi sembra che gli dobbiamo credere alla lettera quando afferma, settant’anni dopo i fatti, di essere “un morto che cammina”.
Forse è fuori luogo un raffronto, ma mi vengono in mente le testimonianze di tanti sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti che, una volta “salvati”, hanno “vissuto”, si potrebbe dire con le parole di Mannai, “in contumacia”, “in permesso dal mondo dei più”, “non come scampati… ma giusto come morti”.
Così Mannai non trova parole per dire il buio, il vuoto, il nulla in cui si è trovato immerso suo malgrado. E quanto più si sforza di avvicinarsi al “cuore della tenebra”, e mi riferisco in particolare alla seconda parte del primo testo (4° capoverso, righe 4,5,6), tanto più le sue parole risultano incomprensibili. E questo non perché Mannai Murenu sia più ignorante degli altri e quindi sprovvisto di adeguati strumenti linguistici, ma semplicemente perché la parola, che è luce, non può dire il buio da cui pure nasce.
A questo punto mi si impone l’associazione con le parole della Genesi a proposito del Verbo:

In principio era il Verbo,
e il Verbo presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di
tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini:
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l’hanno accolta.

La luce del Verbo non è stata accolta dalle tenebre, il Verbo, la parola non può illuminare il buio, non lo può dire. Perciò la morte, che è tenebra, vuoto, nulla, sfugge alla capacità di rappresentazione dell’uomo.
Kurtz, il protagonista di “Cuore di tenebra” di Conrad, libro che mi è venuto in mente leggendo Angioni, pur essendo un intellettuale, tutto ciò che riesce a dire del suo incontro con la tenebra di dentro e di fuori è: “l’orrore, l’orrore”, cioè non più di quanto è riuscito a farci capire il povero Mannai. Che però tanto povero, almeno di spirito, non è.
Lui, che ha attraversato il buio della morte a causa della guerra, da quel buio è uscito paradossalmente illuminato. Ha capito l’orrore e l’insensatezza della guerra e invita il suo interlocutore, e noi, a odiarla “con chiarezza”. Colpisce il sostantivo “chiarezza”. Come a dire che non basta odiare la guerra genericamente, ma che, per poterlesi opporre e affermare la vita, bisogna smontarne la macchina così da mostrarne “con chiarezza” appunto, la ratio, ovvero la totale mancanza di ratio, che si cela nei suoi ben oliati ingranaggi.

R. C.

È interessante la descrizione costruita per brevi frasi accostate fra loro, senza vincoli di subordinazione. Sembra avere il vantaggio di lasciare al destinatario il compito di ricostruire l’intelaiatura razionale della descrizione complessiva.

Una descrizione nella cui costruzione vengono già istituiti dei vincoli di subordinazione fra gli elementi proposti (concetti, immagini, valutazioni, …) è già in qualche modo “sistemata” e giunge al destinatario in maniera in un certo senso “autoritaria”, imponendogli le gerarchie (pre)fabbricate da chi quella descrizione ha confezionato: dice molto e però lascia dire poco.

Invece, se la descrizione del mondo è (deve essere, non può che essere) un’operazione collettiva, è più interessante proporre il nostro pezzetto di descrizione in modo che sia flessibile, che dia, cioè, anche agli altri la possibilità di aggiungere il loro contributo, ancorché in qualche modo sollecitato, ispirato, condizionato, dal nostro.

In tutte le attività di ricerca accade così: la ricerca è il motore della cultura, è cultura essa stessa, e dunque è un fatto sociale, un’operazione collettiva. Ed è collettiva anche quando cerchiamo parole per esprimere il nostro sentire, o quando le cerchiamo per dire che cosa ci sembra buono e giusto, che cosa bello e che cosa vero, perché in ogni caso usiamo il linguaggio, segni che per noi hanno un significato. Per noi, non per me. Per noi umani che sentiamo i nostri limiti, la nostra insufficienza, e che cerchiamo perciò di entrare in relazione coi nostri simili nella disperata (anzi: speranzosa) ricerca di alleati: alleati cui confidare il nostro timore di non farcela, l’ansia che ci deriva dalla consapevolezza più o meno confusa, ma comunque consapevolezza, del nostro essere inadeguati di fronte ad un mondo misterioso che ci sforziamo di “mettere in ordine”, di cui cerchiamo di capire la logica di funzionamento per poterci muovere al suo interno sapendo che tipo di terreno c’è sotto i nostri piedi. Perché una logica ci deve pur essere! Se non ci fosse saremmo veramente fregati: non potremmo mai stabilire delle relazioni fra le cose che accadono, non avremmo mai la certezza che se quella volta, in quelle determinate circostanze, poi è successo così e così, anche questa volta, siccome si verificano quelle stesse circostanze, allora succederà di nuovo così e così. Ecco, se non ci fosse questa logica allora la nostra ricerca sarebbe veramente disperata: non sarebbero possibili previsioni, tutto accadrebbe “a casaccio”, non avrebbe alcun senso fare progetti e quindi non potremmo essere autorizzati a sperare (appunto!) in qualcosa.

Ecco perché cerchiamo, speranzosi, un rapporto con altri che ci appaiono, come noi, ansiosi e disorientati. Con l’ansia e il disorientamento che sono reciprocamente causa e però anche effetto l’una dell’altro, in un tremendo circolo vizioso. Ecco perché cerchiamo gli altri, facendoci sostenere e contemporaneamente sostenendoli. È così che inizia la grande avventura dello stare insieme e del tentativo, mai completamente riuscito e mai completamente fallito del comunicare. È che vogliamo dare un senso alla realtà esterna, che è così contraddittoria: da un lato si presenta come il luogo in cui possiamo trovare le cose che soddisfano i nostri bisogni; ma dall’altro è piena di trappole e di trabocchetti che se non facciamo attenzione rischiano di esserci fatali, proprio quando crediamo di essere riusciti a trovare qualcosa che ci fa stare meglio. Che senso ha tutto questo? la realtà è madre e nutrice benevola o una malvagia matrigna che non si cura affatto delle nostre esigenze? Ecco perché vogliamo affrontare la realtà insieme agli altri: perché ci pare che a fare un lavoro collettivo, a coordinarci nel cercare di perseguire i nostri scopi, forse si ottengono risultati migliori. E quello strumento che ci permette di metterci d’accordo con gli altri, di coordinarci meglio, di dirci l’un l’altro che cosa dobbiamo fare, magari alla fine quel “senso” ci permette anche di dirlo – più o meno bene – se ci sembra di averlo trovato. Se ci sembra che nella realtà non ci sono solo conflitti e contraddizioni, ma ci si può trovare anche un po’ d’ordine; magari quell’ordine non è completamente “giusto”, conforme a come la realtà davvero funziona, ma può comunque servire a fare qualche previsione, a capire come è meglio procedere